Doris

Premessa: Questo è un esercizio di scrittura a cui sono molto legata. La consegna era dare spazio ad uno dei personaggi secondari de La figlia unica di Guadalupe Nettel, immaginarli nel passato oppure nel futuro rispetto al tempo della narrazione. Per Doris ho immaginato un futuro nuovo e sereno, che inizia da una nuova poltrona.
Buona lettura!


Non credeva ce l’avrebbe mai fatta, invece era riuscita a trascinarla fin dentro l’ingresso e a chiudersi la porta alle spalle prima di scivolare sul pavimento fresco.

Ora poteva tornare a respirare, un inspiro e un espiro alla volta, lenti e profondi, senza fretta.

Probabilmente pesava quanto lei, non che la cosa fosse difficile, o almeno così le era parso mentre cercava di capire quale fosse il metodo migliore per coprire quei pochi metri che separavano il marciapiede dal suo nuovo appartamento.

Il corriere era stato brusco, “Una firma qui”, niente buongiorno, vuole una mano, arrivederci. Era sparito in mezzo al traffico di quel pomeriggio appiccicoso mentre lei fissava quel pacco decisamente fuori taglia.

Provò prima a trascinarlo infilando la mano in una delle fessure, con scarsi risultati se non quello di rovinarsi lo smalto rosso. Si soffermò sulle unghie forse più tempo del dovuto, scendendo poi lungo le dita e i dorsi delle mani, che parevano essere di una ragazzina.

Sul cartone erano apparsi dei grossi pois scuri quindi decise di prendere una piccola rincorsa, buttarsi di peso e spingere puntando i piedi, anch’essi smaltati.

Il marciapiede era ruvido e i sandali scivolosi, nessuno dei due contribuiva in alcun modo alla buona riuscita dell’impresa, ma dopo un’inziale resistenza Doris ebbe la meglio e riuscì a superare la soglia del palazzo proprio mentre il rumore della pioggia iniziava a correva nelle grondaie.

Si sedette sulla scatola per prendere fiato; aveva dei ciuffi di capelli sulla faccia e tergiversò ancora un attimo davanti all’occhio della porta rossa 1A che la fissava, un inspiro e un espiro, era l’ultimo passo.

Cercò la chiave rovistandosi nelle tasche, tentennò non riuscendo ancora a riconoscerne la forma al primo colpo, poi fece scattare la serratura.

Spalancò la porta e pattinò sul pavimento lucido dell’androne insieme alla sua scatola, riuscendo a farla finalmente approdare in salotto.

Fece scorrere lo sguardo attraverso la stanza stupendosi ancora del silenzio. Taglierino alla mano aprì il pacco che non credeva sarebbe nemmeno riuscita a spostare.

Restavano solo i piedini da avvitare, fu semplice.

Dopo molto tempo aveva un posto suo, morbido, su cui nessuno si fosse mai salito con le scarpe, che non fosse mai stato vittima di capricci o insozzato da cibo. Uno spazio senza la forma di nessun altro corpo, dove sedersi con la chitarra e ricominciare a suonare senza che nessuno le urlasse contro.

Di certo avrebbe dovuto tagliarsi le unghie e forse rinunciare allo smalto; le sarebbero venuti di nuovo i calli sui polpastrelli valutò sovrappensiero mentre rannicchiata in quella nuova cuccia ascoltava la pioggia che fuori portava via l’afa.

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